[1]
Nel 1920 Marcel Duchamp si duplicò scegliendo sembianze femminili: quelle di Rose Sélavy. Con questo nome è indicato il copyright di Fresh Widow (Fig. 1), ready made derivante dal montaggio artigianale di una finestra verde in stile francese con pannelli di cuoio nero. Quei pannelli, per insistenza di Duchamp, dovevano essere lucidati ogni giorno; e forse per questa ragione, per il quotidiano e lubrico strofinamento di quella pelle, la French Window diventò, nella trasformazione di Duchamp, una Fresh Widow, vale a dire una Vedova impudica. Da quel momento le opere di Rose si moltiplicano. Al suo nome è legato, sempre nel 1920, l’apparecchio ottico a motore detto Rotative plaques verre (optique de précision) (Fig. 2). Il ready made del 1921 costituito da una gabbietta con cubetti di marmo e osso di seppia è battezzato Why not sneeze Rose Sélavy? (Fig. 3). Frasi sensuali della donna sono scritte a spirali di lettere bianche su nove dischi neri nel cortometraggio Anémic Cinéma (Fig. 4) girato presso Man Ray e proiettato il 30 agosto 1926 in una sala cinematografica di Parigi: mentre girano, i dischi creano sensazioni pulsanti ed erotiche. Nel settembre 1934 la donna lancia anche le sue edizioni con un libro di perfettaper quanto tardivaespressione dadaista: una scatola detta La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (Fig. 5) contenente note e riproduzioni in facsimile, meglio conosciuta come la Boîte verte. Ma ancora: nell’aprile 1939 uscì a Parigi in 515 copie un opuscolo di scritti di Marcel Duchamp intitolato Rrose Sélavy, collezione di “poils et coups de pied en tous genres”. click
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Nel frattempo il nome di Rose si era trasformato in Rrose. L’evento è del 1921: un gioco di parole pubblicato a pagina 6 di “Le Pilhaou-Thibaou” (quindicesimo numero della rivista “391”) è firmato Rrose Sélavy. Picabia aveva estratto la frase da una lettera che Duchamp gli aveva inviato da New York a gennaio. Era la prima volta che a quel nome floreale veniva aggiunta una “r” e ciò non faceva che duplicare il personaggio appena nato. Fu sufficiente la semplice aggiunta di una consonante per delineare ancor meglio il mistero del doppio: una creatura appena nata cominciava subito a trasformarsi, a possedere una propria “biografia”. Esiste anche documentazione fotografica di Rrose. Nel 1921 Man Ray collaborò al numero unico della rivista “New York Dada” pubblicando una fotografia che aveva scattato a Duchamp nelle vesti femminili di Rrose Sélavy: un cappellino con fascia a motivi geometrici e un elegante collare di volpe sorretto dalle mani che ne palpano il calore. La fotografia ritrae un viso dall’espressione inafferrabile: labbra atteggiate in un sorriso misterioso, occhi di sottile indifferenza. L’attraente cappellino era stato prestato a Marcel-Rrose da Germaine Everling, la compagna di Picabia: l’antiromantico Duchamp aveva scelto come segno più vistoso della sua trasformazione un copricapo che apparteneva a una donna il cui nomeGermainealludeva al nucleo rovente dell’illusione romantica: il germanesimo. Il sorriso indifferente di Rrose ricorda quello della Gioconda (Fig. 6): nel ready made L.H.O.O.Q. (Fig. 7) del 1919 Duchamp aveva già deformato la Gioconda disegnando a matita un paio di sottili baffetti su una riproduzione del celebre quadro di Leonardo.(1) click
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Cosa rappresenti Rrose può essere chiarificato grazie alla dedica che appare sulla fotografia e che svela l’identità: «Lovingly, Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp». Fu dunque un altro io, da aggiungere a quello già esistente senza nulla nascondere. Tuttavia Rrose ambì a una personalità legale e presto si armò di un biglietto da visita:
baffi e trucchetti
Non serve sapere che nell’emporio di Marcel-Rrose si vendono baffi a volontà per capire che lo pseudonimo puntava foneticamente in una direzione erotica: Rrose Sélavy suona infatti come “Eros c’est la vie” (“Eros: così è la vita”). Ma non solo di questo si trattava. In un colloquio con Pierre Cabanne, Duchamp espresse alcune illuminanti considerazioni: «Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l'idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l'idea: perché non cambiare di sesso? Da qui viene il nome di Rrose Sélavy. Oggi suona abbastanza bene, perché anche i nomi cambiano col tempo, ma nel 1920 era un nome sciocco. La doppia “R” ha a che fare con il quadro di Picabia Oeil Cacodylate (Fig. 8), esposto nel cabaret “Le Boeuf sur le Toit”non so se è stato vendutoe che Picabia chiedeva a tutti gli amici di firmare. Non mi ricordo cosa scrissi, ma il quadro è stato fotografato e perciò qualcuno lo sa. Credo di aver scritto “Pi Qu'habilla Rrose Sélavy”». La frase che Duchamp scrisse sul quadro di Picabia suona foneticamente come "Picabia l'arrose c'est la vie". E ciò allarga il senso da “Eros c’est la vie” alla frase “Arroser la vie”, cioè “berci sopra, fare un brindisi alla vita”.(2) Ambedue i significati del nome rinviano alla visione della vita nutrita da Duchamp: se a una prima considerazione superficiale la trasformazione di Duchamp in Rrose Sélavy sembra innescare un vivace gioco di interpretazione, un’osservazione più precisa dimostra che la trasformazione coagula invece un’erotica duratura: quella derivante dalla gioia di vivere e di vagare liberamente col pensiero. Infatti, oltre a firmare alcuni ready made, Rrose scrive dei bon-mots, dei giochi di parole intenzionalmente senza senso, ma che a volte suonano altamente espliciti. Rrose possiede dunque una personalità “linguistica” che nasce da un’idea precisa di linguaggio. In un’intervista apparsa su “L’Express” del 23 luglio 1964, Duchamp affermò: «Il linguaggio è un errore dell’umanità. Tra due esseri che si amano la parola non esprime quanto di più profondo essi provano. La parola è un sassolino usurato che si applica a trentasei sfumature di affettività. Il linguaggio è comodo per semplificare ma è un mezzo di locomozione che detesto». «E tuttaviaribatte l’intervistatorecon lo pseudonimo di Rrose Sélavy, lei si è interessato al linguaggio». «Era per divertirmi. Nutro un grande rispetto per l’umorismo, costituisce una sorta di salvaguardia che consente di passare attraverso tutti gli specchi».(3)
Cosa si realizza alla lettura dei detti di Rrose? Semplicemente la gioia di leggere qualcosa di sempre nuovo, un’esperienza che potrebbe ricordare quella di raccogliere frutti in un eden. Duchamp lo aveva preannunciato nel 1911 con la tela Jeune homme et jeune fille dans le printemps (Fig. 9): una scena di gioia pagana in cui due giovani nudi colgono liberamente frutti da una pianta che cresce in una natura lussureggiante. La questione di fondo è che solo la donna può farsi capire senza ricorrere al significato, come succede negli aforismi di Rrose. In altre parole, solo la donna è imprendibile. Come l’ironia.
Duchamp persegue una forma primitiva di eros: ciò è evidente dalla sua idea di matrimonio, inteso come vicolo cieco, come tomba dell’amore. La caricatura Dimanches del 1909 è a tal riguardo impietosa: la coppia matrimoniale, con il bambino appena nato, si riduce la domenica alla noiosa passeggiata in cui è l’uomo a spingere la carrozzina, mentre la moglie, di nuovo gravida, cammina stancamente al fianco. Sulla propria scelta di scapolo, attratto dalle donne ma respinto dal matrimonio, Duchamp dichiarò una volta a Pierre Cabanne: «Io mi resi conto fin da giovane che non ci si dovrebbe appesantire con troppa zavorra, con troppi lavori, con una moglie, con dei figli, una casa di campagna, un’automobile; per fortuna me ne convinsi subito. È per questo che ho potuto vivere con molta maggior semplicità, come scapolo, di quanto avrei fatto se avessi dovuto vedermela con tutti i problemi abituali della vita». Duchamp difese sempre questo senso di libertà, e scrivendo una volta ad Arturo Schwarz sul senso del matrimonio affermò: «L’ho evitato accuratamente fino all’età di 67 anni. Ho sposato una donna che, a causa della sua età, non poteva avere figli». Anche se in realtà si era già sposato nel 1927, rimanendo coniugato per l’irrisorio periodo di tre mesi. L’eros è per Duchamp una cosa seria; è ciò che sostituisce l’ironia assente. In un’intervista dell’8 dicembre 1961 Alain Jouffroy chiese a Duchamp se credeva che l’umorismo fosse indispensabile per la creazione dell’opera d’arte, e lui rispose: «In modo assoluto. Ci tengo particolarmente perché la serietà è cosa molto pericolosa. Per evitarla è necessario l’intervento dell’umorismo. L’unica cosa seria che potrei prendere in considerazione è l’erotismo. Quello sì che è serio!».(4) Questa idea è alla base della filosofia di Rrose Sélavy, autrice che converte il pathos dell’aforisma in un piacere e l’emozione della scrittura in un pensiero. Al fondo della sua procedura c’è erotismo, perché l’eros scaturisce dalla situazione della continua novità: il pensiero diventa erotico quando si manifesta come pensiero in perenne formazione, e come tale emerge dai lavori di Duchamp del 1911 e 1912: Dulcinée; Jeune homme triste dans un train; Nu descendant un escalier. Per ambire alla novità erotica si deve utilizzare la lingua nei suoi componenti elementari. La lingua è per Rrose quel cioccolato che Duchamp macina nella Broyeuse de chocolat (1914) per ottenere una polvere di cacao che, con l’aggiunta dello zucchero umoristico, diventa una polvere dolce utilizzabile in molte miscele, cosa non praticabile col cioccolato solido.
C’è inoltre un ready made di Duchamp che può essere letto in senso antifrastico: l’Egouttoir del 1914, lo scolabottiglie circolare (Fig. 10) che sta in piedi senza appoggi, oggetto molto comune nella Francia dei vini. Esso sembra rappresentare ciò che non deve succedere nel linguaggio: gli aforismi di Rrose non devono prosciugarsi come le bottiglie infilzate a testa in giù nello scolabottiglie. Egouttoir si riferisce ovviamente al verbo égoutter, sgocciolare, che a sua volta richiama molto da vicino égoûter, togliere gusto: se una cosa viene prosciugata perde tutto il gusto. La procedura erotica implica la conservazione del gusto: erotica è la differenza, non la ripetitività. Uno dei punti fermi della biografia di Duchamp è la ragione del suo abbandono della pittura: interrogato in merito, rispondeva sempre in maniera simile. Nell’intervista apparsa il 23 ottobre 1965 sul giornale spagnolo “Siglo XX” rispose che era «per via della ripetizione: si possono fare tre o quattro cose eccezionali, ma tutto il resto è ripetizione». Nell’intervista al “Paris-Normandie” del 12 aprile 1967 disse che «non c’è nulla di più noioso della ripetizione. Tutto ciò che non è inusuale o insolito cade nell’oblio». Ma l’erotica implica anche la necessità di sfuggire al gusto fermo creato da una tradizione statica. Nel cortometraggio A conversation with Marcel Duchamp mandato in onda dalla NBC il 15 gennaio 1956, Marcel affermò a un certo punto che esisteva il pericolo di giungere a una specie di gusto: «Se si ripete un certo numero di volte, la cosa diviene gusto».(5) Se c’è un rischio che Duchamp ha sistematicamente evitato è quello di ripetersi: tentò di continuo strade nuove di espressione, fino al silenzio volontario. Duchamp ci prende per mano e ci conduce a una lussuosa visione del Nulla: nonostante questo, la sua opera scatena concitazione. Succede per il corpo del Jeune homme triste dans un train, e per quello nudo che scende le scale: entrambi assumono una forma sempre diversa, come le idee, per loro natura liquide ed eternamente mobili. Duchamp non ha scelto di ritrarre forme ferme, istantanee di un tempo preciso, così come gli aforismi di Rrose non sono forme linguistiche correlate alla logica comune. Duchamp elimina ogni riferimento di autorità: lo fa sciogliendo il significato in una pasta molle ad uso libero. Un uomo (l’artista) traccia il segno e lascia che l’altro uomo (il fruitore) ne tragga il significato che vuole. C’è dunque l’Uomo, carnoso e tondo; c’è il Segno, geometrico e scricchiolante come il pennino che lo traccia; ci sono infine i Significati, mare del Nulla. Col Segno si può creare autorità: si possono creare le utopie e le teologie. Assegnare un Significato al Segno è come stabilire un rapporto di autorità. Ma si può anche liberare il Segno dall’autorità: ecco l’azione erotica, il compito dell’indifferenza, la nullificazione del senso. Se si toglie al Segno il Significato, appare la purezza. Duchamp è giunto a liberarecon gesto d’arteil Segno dai Significati, e a lasciare al Segno la libertà di intridersi del Significato che arbitrariamente il fruitore gli assegna. E libertà del Significato è gesto d’arte, gesto “politico” nella sua essenza. [3] Nel Dictionnaire abrégé du surréalisme Éluard e Breton inserirono la definizione di Duchamp sul ready made: «Oggetto usuale promosso alla dignità di oggetto d’arte per la semplice scelta dell’artista». Ma Duchamp ricorre in altri punti del dizionario, e forse le iniziali M. D. che siglano la voce “Hasard” sono le sue: «Hasard en conserve». La definizione significa “Il caso in conserva”; potrebbe essere deformata in “Marmellata del caso” e vi si potrebbe trovare già un senso, certamente non voluto da Duchamp. Si potrebbe cioè pensare al fatto che il caso si mescola molto bene col restante caso a formare la marmellata di ogni singola esistenza. La conserva del caso di Duchamp è da lui raggiunta mediante un atto di puro arbitrio. Nella sua opera, egli induce l’osservatore a un’interpretazione, a fare un commento, ad aggiungere al dato (semmai il semplice dato del ready made) altri dati. Tutto comunque è arbitrario, inutile, sterilmente inefficace. La produzione di Rrose (e di Duchamp) provoca uno stupore arcano, refrattario a ogni speculazione razionale. L’erotica di Rrose sfocia in una sterilità di sapore gnostico: c’è infatti una forma di celibato sterile nei detti di Rrose Sélavy. Sono frasi arbitrarie che scatenano un’idea, un’immagine, una reazione di commento, una serie di interpretazioni a loro volta sterili, inutilmente reiterate all’infinito. E ciò rinvia alla grande intuizione religiosa di Giordano Bruno: quell’universo infinito che contrasta con la necessità di universo finito su cui il Tomismo si reggeva. Bruno tuttavia investe la materia di divinità (panteismo), Duchamp dimostra invece che la materia è infinito Nulla. Bruno reclama un gesto di coscienza: farsi consapevoli che l’infinito è immagine del Dio presente in ogni granello di universo; Duchamp reclama invece un gesto di incoscienza: «L’incosciente è orfano, ateo, celibe».(6) Solo mediante incoscienza si conserva il celibato e l’ateismo. Il celibe è figura dell’incredulo, come l’orfano è figura dell’abbandono al nulla. In ambito religioso Duchamp coltiva un puro ateismo, quello che lievita dal caso messo in conserva. Ma se l’arbitrio domina l’agire di Duchamp, la sua scelta di sterilità è libera. Egli potrebbe scegliere di essere fertile; sceglie invece di essere sterile, e lascia che la moltiplicazione del nulla sia attuata da chi è fertile, cioè dagli “altri”. Egli lascia in eredità un castello: che sterilmente si moltiplichino le interpretazioni delle sue opere d’arte onel caso di Rrosedei suoi aforismi. In tal modo stabilisce un rapporto a doppia direzione: lo sterile fa in modo che il fertile possa perpetuare la sua inutile fertilità; il fertile concede al celibe–sterile di restare tale: gli concede il piacere dell’onanismo (il celibe è onanista per definizione). Non va considerato di secondaria importanza il fatto che nel biglietto da visita di Rrose il primo titolo sia quello aziendale di “Ottica di precisione”: è un chiaro invito ad assumere, nel commercio con Rrose, uno sguardo preciso che nulla tralasci, o che almeno non metta in seconda linea alcune osservazioni per le quali è necessario armarsi di un’ottica speciale. Si tratta dell’ottica gnostica. Idea gnostica è che l’uomo sia un grumo di luce acceso nella tenebrosa prigione del mondo, intriso di dolore e di male. L’uscita dal mondo è possibile solo con una purificazione, perseguibile anche mediante la trasformazione in una creatura diversa. Rrose è una creatura erotica e al contempo pura: con la sua nascita, come quella della Primavera di Botticelli dalle onde del mare, Duchamp approdò a una conquista inaudita di conoscenza e di visione. La sua trasformazione in un personaggio femminile non fu un sacrificio in nome della Grande Madre Mediterranea, ma la definizione gnostica dell’essere puro (cataro) come creatura che vive al di fuori del mondo. Amante di tutte le forme moderne di espressione, anche Breton si soffermò più volte sulla figura di Duchamp. In Testimony 45, articolo apparso nel marzo 1945 sul numero speciale dedicato a Duchamp dalla rivista statunitense “View”, Breton si pose un quesito radicale: in quale misura, dopo l’apparizione della maggiore opera di Duchamp, La Marié mise à nu, sia legittimo continuare a dipingere come se essa non esistesse. L’apparizione di Duchamp diventa secondo Breton qualcosa di sempre più imperativo: «Essa tende a denunciare come obsoleta e vana la maggior parte della produzione artistica recente».(7) Ecco l’azione purificatrice di Duchamp, il suo catarismo evangelico: fare tabula rasa di tutto, imporre la necessità del Radicalmente Nuovo. Lo fece incarnandosi in Rrose Sélavy e realizzando una Gnosi Erotica o, se si preferisce, una Erotica Gnostica: in ogni caso giungendo alla posizione più alta per capire cosa nel mondoe nella vitavalga la pena sia tentato.
Notes 1.
L’androginia della Gioconda coi baffetti è solo l’aspetto più vistoso
di un fenomeno che ha sviluppi ben più profondi. Si veda il lungo
articolo di Lanier Graham, Duchamp & Androgyny: The Concept and its Context in Tout–Fait. The
Marcel Duchamp Studies Online Journal, vol. 2, n. 4, gennaio 2002.
<http://www.toutfait.com/issues/volume2/issue_4/articles/graham/graham1.html>
2. M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu. Entretiens avec Pierre Cabanne, Parigi, Belfond, 1967, p. 118. La frase precisa scritta sul quadro di Picabia era “en 6 qu'habilla rrose Sélavy”; si può osservare una buona riproduzione del quadro in Arturo Shwarz, Almanacco Dada, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 340. Ma si veda anche Jennifer Gough–Cooper e Jacques Caumont, "Effemeridi su e intorno a Marcel Duchamp e Rrose Sélavy 1887–1968," nel volume Marcel Duchamp, Milano, Bompiani, 1993, alla data del 1 novembre 1921. 3. L’intervista del 23 luglio 1964 è pubblicata nelle citate Effemeridi, alla data. La produzione aforistica di Rrose Sélavy è raccolta in Marcel Duchamp, Marchand du sel. Ecrits de Marcel Duchamp, a cura di M. Sanouillet, Parigi, Le Terrain Vague, 1958 (traduzione italiana: Cava dei Tirreni, Rumma Editore, 1969) e in Duchamp du signe. Ecrits, a cura di M. Sanouillet, Parigi, Flammarion, 1994. Michel Sanouillet e Elmer Peterson hanno dedicato a queste frasi un intero capitolo del loro libro Salt Seller. The Writings of Marcel Duchamp, New York, Oxford University Press, 1973. 4.
Per l’intervista di Cabanne cfr. Ingénieur du temps perdu,
cit., p. 23. L’idea espressa a Schwarz è riportata in Le macchine
celibi, a cura di Harald Szeeman, Milano, Electa, 1989, p. 189
nota 4. L’intervista dell’8 dicembre 1961 è pubblicata nelle citate
Effemeridi, alla data. Sul valore dell’umorismo si leggano
anche le prime battute dell’intervista rilasciata da Duchamp a Guy
Viau della Radio–Televisione canadese il 17 luglio 1960, ora pubblicata
col titolo Changer de Nom, Simplement in Tout–Fait. The
Marcel Duchamp Studies Online Journal, vol. 2, n. 4, gennaio 2002.
<http://www.toutfait.com/issues/volume2/issue_4/interviews/md_guy/md_guy.html>
5. Per tutte queste affermazioni si vedano le citate Effemeridi, alle rispettive date. 6. Gilles Deleuze, in Le macchine celibi, cit., p. 15. 7. L’articolo è ora raccolto in André Breton, Oeuvres complètes, vol. III, Parigi, Gallimard, 1999, pp. 144–145.
Figs.
1-5, 7, 9-10
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